La seconda lettera ai Tessalonicesi dev’essere stata scritta non molto tempo dopo la prima, con ogni probabilità da Corinto, nell’anno 51. Paolo è stato informato che i cristiani di Tessalonica sono sempre in stato di persecuzione e inoltre ha due motivi di preoccupazione: v’è chi, appellandosi a qualche espressione dell’Apostolo, forse della lettera precedente, ha cominciato a insegnare che la fine della storia è ormai giunta e che la parusìa, o venuta di Gesù nella gloria, è imminente; altri, invece di lavorare, secondo l’insegnamento e l’esempio di Paolo, continuano lo stile di vita oziosa e indisciplinata che tenevano prima della conversione, campando di espedienti, sfruttando la carità e la beneficenza dei fratelli di fede. Da qui l’intervento dell’Apostolo, breve ma autorevole e alquanto risentito.
Affinità e diversità di tono e di stile tra le due lettere ai Tessalonicesi hanno indotto alcuni studiosi a sollevare obiezioni circa l’autenticità paolina di questa lettera, ma sembrano più forti le ragioni a favore: anche in questo caso la stesura della lettera dev’essere opera d’un discepolo-redattore, ma resta significativo l’intervento autografo che si legge alla fine: «Il saluto è di mia mano, di Paolo... Così io scrivo» (3,17).
Il contenuto della lettera si può ripartire nel modo seguente: inizia con un’esortazione a perseverare nella persecuzione (1,3-12); segue un’istruzione, per noi oscura, su ciò che vieta di ritenere che la parusia sia imminente (2,1-12); segue un’esortazione a perseverare (2,13 - 3,5); e infine la nota di biasimo per gli oziosi e gli sregolati (3,6-15).